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Perché ti auguro di fallire:

Immagine del redattore: dott.ssa Sara Rizzidott.ssa Sara Rizzi

Quante volte ci siamo fatti frenare, bloccare dal timore del fallimento, magari precludendoci opportunità uniche? Accettare il fallimento, uscire dalla comfort-zone, esplorare le nostre capacità e metterci attivamente in gioco non è sicuramente da tutti! Ma i pochi che lo fanno (se lo fanno bene) raggiungono obiettivi che la maggior parte di noi considera solo nei sogni più fantasiosi. Cosa ci impedisce di vivere in modo proattivo la vita, portandoci spesso ad accontentarci della mediocrità ed a viverla a testa china? Pensiamo soprattutto a chi si trova a lavorare come freelance; in ambito artistico, olistico, creativo o semplicemente in libera professione, la responsabilità del lavoro e del salario sono tutte sull’individuo. In questo caso una vera e propria “educazione al fallimento” è fondamentale per avere piena consapevolezza del proprio potenziale e dei propri limiti; anche chi non lavora autonomamente però può sperimentare in uno o più contesti della propria vita il timore del fallimento, e lasciare che questo timore lo/la freni dal realizzarsi completamente e pienamente in ambito relazionale, artistico, sportivo o semplicemente personale. Lo spettro nero del fallimento può frenare chiunque, in qualsiasi contesto della vita, in qualsiasi posto del mondo. Questo perché il fallimento, ovvero il non centrare un obiettivo prefissatoci, viene pensato e percepito esclusivamente al negativo: come un grosso lupo nero, spaventoso e pronto a ghermirci nelle sue fauci per trascinarci in una spirale di autocritica, autocommiserazione, vergogna e disperazione. Questa negativizzazione del fallimento porta con sé pensieri come: “Se fallirò, significherà che non valgo nulla” La conseguenza logica di questo pensiero è che è meglio non fallire, e quindi non rischiare. Falso!

Oggettivamente parlando, il fallimento è un evento. Se ci pensiamo bene è uno di quegli eventi della vita di cui è inevitabile fare esperienza: prima o poi, in qualsiasi ambito, ognuno di noi sperimenta il fallimento, grande o piccolo che sia. Dietro ad un pensiero come quello portato in esempio c’è un bias (una distorsione) abbastanza grave: ovvero che il “valore” di una persona dipenda dagli eventi. E questo è assolutamente falso! Il valore di una persona non è quantificabile, e anche se lo fosse non dipenderebbe certo dagli eventi. “Ma se fallisco è una mia responsabilità” Certo, assolutamente. Ma non c’è niente di sbagliato, intrinsecamente, nel fallimento: l‘unica conseguenza logicamente deducibile da un fallimento, sempre oggettivamente parlando, è semplicemente che se hai fallito, significa che ci hai provato, e non è andata.



Quindi, se almeno una volta hai sperimentato un fallimento, che fosse un rifiuto sentimentale o lavorativo: congratulazioni! Hai avuto il coraggio di uscire dalla tua comfort-zone e provarci!

Ora proviamo a riflettere insieme su cosa porti con sé il fallimento, e perché nella società di oggi siamo tutti così fissati con il successo (e di conseguenza, con il suo opposto: il fallimento). Viviamo in una società in cui è molto, troppo presente la dicotomia successo-fallimento. Cominciamo da piccolissimi a conoscere questi concetti. Cominciamo molto, troppo presto a confrontare le professioni dei nostri genitori, la quantità ed il costo dei giocattoli, i quartieri dove abitiamo, cosa vogliamo fare da grandi. È il mondo degli adulti che dà questi input già da quando siamo piccoli. E i bambini, che sono bravissimi ad assimilare il non-detto, il non- dichiarato, iniziano presto a farsi l’idea che ci sono persone che hanno successo e persone che non hanno successo. Quando questi bambini cresceranno, avranno ormai questa dicotomia molto radicata in sé. Quello su cui vorrei ragionare oggi è l’idea che il successo non è assoluto.

Nessuno di noi è arrivato o fallito, mai veramente: queste sono categorie, etichette, adesivi che ci vengono appiccicati addosso, a volte dagli altri a volte persino da noi stessi.

La riflessione che propongo è questa: la relatività dei concetti quali persona di successo e fallito. Queste sono semplicemente categorie, ovvero delle “etichette” che sono, per vizio di forma, legate ad un ambito. Lo stesso ragazzo potrebbe, ad esempio essere un fallito a scuola, ma potrebbe anche, lo stesso ragazzo, essere il figo della band con cui suona nel garage di casa. La stessa donna potrebbe essere una fallita sul lavoro, ma essere una delle più autorevoli e capaci colonne portanti della onlus in cui fa volontariato. Tutto cambia a seconda del contesto, e soprattutto dei criteri che adottiamo per decidere se la persona che abbiamo davanti (o che ci guarda da oltre lo specchio) è assimilabile al successo o al fallimento, e quale categoria, etichetta, apporle. Questi criteri sono soggettivi e molto vari. Cambiano da persona a persona ed è per questo che in un certo senso si potrebbe dire che il fallimento (o il successo) sta nell’occhio di chi guarda (come, ampliando un po’, ogni forma di giudizio sociale). Tornando al pensiero portato in esempio, vediamo ora più chiaramente come la dicotomia successo-fallimento non sia quindi legata alla natura della persona (nessuno di noi è ontologicamente sfigato o ontologicamente figo); siamo noi che decidiamo quale etichetta apporre, se quella di “successo” o di “fallimento” su noi stessi e sugli altri.

La verità è che, probabilmente, non siamo né nel successo né nel fallimento, ma da qualche parte nel mezzo: la dicotomia successo-fallimento non esiste di per sé, perché gli stati di successo e fallimento non sono stati assoluti del tipo “on-off”, “o successo o fallimento”, “o bianco o nero”.

Questo modo di pensare assoluto e dicotomico è un altro bias in cui cadiamo spesso, ovvero quello di ipersemplificare la realtà che non è veramente in “bianco-nero” ma piuttosto in fluttuanti e soggettive scale di grigi. Detto ciò, perché ti auguro di fallire? Se ho un po’ a cuore la tua felicità, non solo ti auguro di fallire, ma ti auguro di fallire più e più volte!

L’idea che ti propongo oggi è che il fallimento sia 1. inevitabile (come abbiamo visto sopra), e 2. funzionale al successo. Tenendo a mente tutto ciò che abbiamo già detto sul fallimento (ovvero che è un’etichetta, data soggettivamente a seconda di criteri anch’essi decisi soggettivamente e contestualizzabili ad un solo ambito di vita della persona), esso è necessario se si vuole raggiungere qualcosa di definibile come successo (ricordandoci però che anch’esso è un’etichetta soggettiva). Il successo ed il fallimento non si trovano realmente ai due opposti di un continuum, per cui o l’uno o l’altro (la visione dicotomica, come abbiamo visto), ma sono, oggettivamente parlando, due eventi. La maggior parte delle persone pensa che ad un tentativo (addirittura magari al primo!) si possa raggiungere o il successo o il fallimento. Nella realtà, per raggiungere il successo servono tanti, tantissimi tentativi andati male: servono, appunto, perché ci permettono di aggiustare il tiro, prendere consapevolezza dei nostri limiti, dei nostri potenziali, di come risponde il contesto attorno a noi, di quali sono gli ostacoli da rimuovere.


Il successo è fatto di tanti tentativi andati male.

Il successo, quello vero, è come un palcoscenico ben illuminato e guarnito di stupende scenografie: dietro le quinte però, stanno tutti i costumi scartati, le prove sbagliate, gli attacchi balbettati, gli errori tecnici. Possiamo vederlo in un atleta che vince una gara, e finalmente sale sul podio in prima posizione: quello che vediamo è un bravo atleta, che ha faticato molto, e grazie al suo impegno e a quello del suo team ha finalmente raggiunto il successo. Quello che non vediamo, sono le innumerevoli gare perse, le selezioni in cui è stato scartato, la fatica e le rinunce quotidiani, la mancanza di certezze e la voglia di mollare. Non le vediamo, ma tutti questi “fallimenti” sono lì, sul podio, insieme a lui. Dal momento però che non li vediamo, è molto facile per noi, con la nostra ottica dicotomica del successo e del fallimento, pensare semplicemente che si tratti di una persona che ricade nella prima categoria. Il fallimento, in buona sostanza, non è solo inevitabile: è necessario per il raggiungimento dei nostri obiettivi. Gli errori che facciamo sono grandi maestri di vita, che ci portano avanti sulla via della consapevolezza. Bisogna però saperli accettare, senza giudicare, per poter imparare da loro. Questa è la parte più difficile:

smettere di misurare il nostro valore con il numero dei nostri errori, smettere di misurare gli altri con il metro del successo, accettare gli errori con umiltà, utilizzarli per migliorarsi e soprattutto prendere a benvolere il fallimento.

Come fare a benvolere il fallimento? Guardandolo per quello che è: un evento della vita, inevitabile pur se spiacevole, che implica che ci abbiamo provato (yeah!), che non è andata e che non è andata per dei motivi che possiamo individuare e correggere per migliorarci e ritentare. L’aver fallito nel perseguire un obiettivo non ci definisce come persone, ma piuttosto ci insegna qualcosa e per questo ci avvicina di un piccolo passo al successo che agogniamo. In questo modo il lupo nero dalle grandi fauci comincerà a sembrarci più piccolo, amichevole e meno spaventoso; un compagno di vita inevitabile e disposto ad indicarci tutte le parti su cui lavorare per ottenere ciò che vogliamo.

Ecco perché ti auguro di fallire: perché se raggiungerai il successo, qualunque sia esso per te, sarà grazie ad un ampio numero di fallimenti.

Ti auguro quindi di fallire tantissime volte, tutte quelle che ti servono; e ti auguro anche di saper ringraziare gli errori ed i fallimenti per le informazioni e l’esperienza che ti daranno, e ti auguro infine di non voler mai più misurare il “valore” della tua persona sulla base di etichette quali “successo” o “fallimento”, perché tu vali a prescindere dagli eventi che ti accadono.

Ora andiamo, e falliamo insieme!

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